Fino all’8 gennaio, al Peggy Guggenheim di Venezia sono esposti alcuni scatti fotografici di grandi maestri, tra cui Piergiorgio Branzi, di cui amo particolarmente il Ragazzo con l’orologio, Comacchio 1956.
Chissà se Francesco De Filippo aveva in mente un’immagine come questa, scura come le spalle del vulcano e senza mare, quando ha tracciato la storia di Patrizio Borriello, una delle tante – indispensabili e solo apparentemente a margine – di Una storia anche d’amore. Storia che non passa inosservata perché nel travolgere (come tutte le altre) l’anche del titolo ci fa abbozzare più di un sorriso, con quel suo collocare stralunata l’amore “per sempre” dentro una tragedia personale. Patrizio Borriello esiste e si pone in relazione con il mondo grazie ad una gigantesca sveglia che porta sempre con sé; come gli altri personaggi della storia è prigioniero del suo passato, che attraverso questo oggetto ingombrante non passa ma respira e palpita facendosi aria di dolore irrinunciabile. La sveglia porta il nome del suo grande amore perduto, Rosaria, “della donna, l’unica, che una notte senza fondo e priva di stelle per orientarsi, regalò a Patrizio Borriello se stessa e la gigantesca sveglia”, appena un attimo prima di essere sopraffatta dalla violenza e dalla ferocia di una banda di disertori nazisti.
Da quel giorno nella vita di Patrizio, che smette gradualmente di parlare con il mondo, il ticchettio della sveglia segna il ritmo del suo respiro e della sua comunicazione anomala, in una misurazione rovesciata del tempo che pare spingere le lancette invece di essere da loro segnato. In un incubo che muove non dal rumore dei meccanismi ma dal vuoto/silenzio tra un ticchettio e l’altro.
Mentre Teodoro Faxa, il protagonista fuori da ogni logica e tempo (ammesso che si sia in grado di contrapporne di valide – di logiche – al suo essere lento e di altrettanto validi – di tempi – alla cadenza estenuante del suo), torna alla realtà (ridiventa umano) proprio grazie all’uomo della sveglia e ottiene uno tra i tanti e infinitesimali frammenti di quella coscienza conquistata la quale capirà di amare Anita.
Coincidenze in tema di tempo e tempi: la storia che la giornata odierna e questa immagine mi hanno richiamato alla memoria, non lineare e non scontata, d’altri tempi ma neanche troppo, che inizia in un imprecisato e non ben definibile momento per non concludersi – in apparenza – se non con una morale amara (anche l’amore si stanca di aspettare, e se ne va), ha il suo punto chiave il 2 gennaio, a ridosso di un lungo prima e inaugurando un lunghissimo dopo. Che è poi l’incipit del libro e la traccia della spaventosa voragine temporale che fa degli accadimenti qualcosa di “senza tempo”, pur nel costante paradosso della sua pedante scansione e misurazione: “Impiegò undici anni, quattro mesi e ventiquattro giorni per dirgli che lo amava“.
Come dice la saggezza popolare, “chi getta un seme, lo deve coltivare se vuol vederlo col tempo germogliare”, ma anche “l’amore fa passare il tempo, il tempo fa passare l’amore“.
Dicono…