Squilibri

Leggo per legittima difesa. E per trovare domande

Limes

Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini.
(J.L. Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius)

Ebbero un riflesso e un senso perché il mio sguardo si sedeva di fronte a loro e il fascio di luce, invece di rimbalzare sulla pelle lucida, pareva attraversarle e aprire uno spazio illusorio intorno a cose che non vedevo, il mio viso, il mondo alle mie spalle, quello dentro. Mi confusero festose come finestre improvvisamente spalancate dal maestrale e affacciate sullo stupore di stare senza nostalgie. Sapevano che la differenza tra un bambino e il resto del mondo non è l’età, ma i sogni, dentro i quali riparare e costruire aquiloni per i giorni che verranno.

Amavo l’incanto di certe parole specchio perché inquietavano il fondo del mio corridoio senza luce.

«Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra l’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra. Così il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta. Non esiste o avviene cosa nell’una Valdrada che l’altra Valdrada non ripeta, perchè la città fu costruita in modo che ogni suo punto fosse riflesso dal suo specchio, e la Valdrada giù nell’acqua contiene non solo tutte le scanalature e gli sbalzi delle facciate che s’elevano sopra il lago ma anche l’interno delle stanze con i soffitti e i pavimenti, la prospettiva dei corridoi, gli specchi degli armadi. Gli abitanti di Valdrada sanno che tutti i loro atti sono insieme quell’atto e la sua immagine speculare, cui appartiene la speciale dignità delle immagini, e questa loro coscienza vieta d’abbandonarsi per un solo istante al caso e all’oblio. Anche quando gli amanti dànno volta ai corpi nudi pelle contro pelle cercando come mettersi per prendere l’uno dall’altro più piacere, anche quando gli assassini spingono il coltello nelle vene nere del collo e più sangue grumoso trabocca più affondano la lama che scivola tra i tendini, non è tanto l’accoppiarsi o trucidarsi che importa quanto l’accoppiarsi o trucidarsi delle loro immagini limpide e fredde nello specchio».


Uno specchio graffiato non riflette immagini,
e questo è il silenzio della saggezza
.


Una mattina le vidi provare e studiare a lungo nello specchietto a mano che teneva con sé sul letto un sorriso pietoso e tenero, pur con un brillío negli occhi di malizia quasi puerile. Vedermelo poi rifare tal quale, quel sorriso, vivo, proprio come se le nascesse or ora spontaneo per me, mi provocò un moto di ribellione.
Le dissi che non ero il suo specchio.
Ma non s’offese. Mi domandò se quel sorriso, come ora gliel’avevo visto, era quello stesso che lei s’era veduto e studiato nello specchio dianzi.
Le risposi, seccato di quell’insistenza:
«Che vuole che ne sappia io? Non posso mica sapere come lei se l’è veduto. Si faccia fare una fotografia con quel sorriso».
«Ce l’ho» mi disse. «Una, grande. Là nel cassetto di sotto dell’armadio. Me la prenda, per favore».
Quel cassetto era pieno di sue fotografie. Me ne mostrò tante, di antiche e di recenti.
«Tutte morte» le dissi.
Si voltò di scatto a guardarmi.
«Morte?»
«Per quanto vogliano parer vive».
«Anche questa col sorriso?»
«E codesta, pensierosa; e codesta, con gli occhi bassi».
«Ma come morta, se sono qua viva?»
«Ah, lei sì; perché ora non si vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è più».
«E perché?»
«Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa».
«E allora io, viva, non mi sono mai veduta?»
«Mai, come posso vederla io. Ma io vedo un’immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma ne avrà certo provato un’ingrata sorpresa. Avrà fors’anche stentato a riconoscersi, lì scomposta, in movimento».
«È vero».
«Lei non può conoscersi che atteggiata: statua. Non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive».
«Ma nient’affatto! Non riesco anzi a tenermi mai ferma un momento, io».
«Ma vuole vedersi sempre. In ogni atto della sua vita. E come se avesse davanti, sempre, l’immagine di sé, in ogni atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede le si gela. Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per sé? Le può avvenire di non comprendere più perché lei debba avere quell’immagine che lo specchio le ridà.

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