Squilibri

Leggo per legittima difesa. E per trovare domande

Rosso Istanbul

istanbulSentivo che l’approdo a Istanbul era coinciso con la scoperta dell’altrove. Istanbul è una frontiera, una soglia da varcare per entrare in un altro mondo.
(Melania Mazzucco, in Ogni viaggio è un romanzo)

Istanbul e la vecchia casa aspettano il ritorno, uno dei tanti che l’Ozpetek regista – «turco in Italia e italiano in Turchia» – compie da anni dimorando ormai in Italia. Le case dell’infanzia, quelle che resistono ad ogni nostro tentativo di allargare il solco e aumentare la distanza con il passato, in realtà non si lasciano mai, «rimangono sempre dentro di noi, anche quando non esistono più»; sarà per questo che adoro i suoi film, le storie che racconta, il modo in cui lo fa e dunque sono in questo momento una voce assai “di parte”…

Rosso Istanbul è una storia rapida come una sceneggiatura e paradossalmente a rilascio lento, in profondità, quando i verbi smettono d’essere declinati al presente. È un racconto a due voci parallele, narrato alternativamente in prima e in terza persona, in un continuo sfiorarsi, sovrapporsi, incontrarsi. È l’autore/regista che intraprende il viaggio, eppure le sue nostalgie, le fragilità, le sorprese e i rimpianti diventano un po’ anche i miei.

L’alternanza dei punti di vista nel racconto e la “storia nella storia” sono l’occasione per abbandonare la concentrazione esclusiva su se stesso e incastrare nell’evidenza di un ritorno quello di una partenza. Da sé e da una vita “precedente”. Con la storia di Anna, investita da una forza d’urto che lascia sul terreno solo cocci e rovina a cui – tuttavia – saprà reagire. Perché ogni danno scrive sulla pelle una storia indelebile, ma sta a noi dare senso e bellezza laddove la vita ci ha scheggiato; come si fa in Giappone, riparando le ceramiche rotte senza nascondere le linee di frattura, anzi, riempiendole d’oro.

In Rosso Istanbul il presente è una meteora che dura giusto il tempo di “dire” quel che accade. Poi tutto passa, è il passato. Una madre strepitosa e anticonformista, un padre che non era dove credevi che fosse, i riti dell’infanzia, gli aquiloni, il vecchio cinema, il mare “dentro”, i profumi e i sapori perduti, il primo amore da vivere sottotraccia, la profonda malinconia degli addii.

«Ma lascia almeno / ch’io lastrichi di un’ultima tenerezza / il tuo passo che s’allontana» ha scritto Majakovskij. Ogni volta che rileggo questi versi, penso che contengano tutti gli addii della mia vita. Quel senso di perdita, quello struggimento.

Il passato che ritorna mentre il presente ti afferra, in un gioco amaro di forze contrastanti, perché il misterioso disegno che sovrasta le nostre esistenze possa sorprenderci e compiersi. Rosso Istanbul è la sinfonia di un ritorno nell’estremo tentativo di guardare indietro. E si ritorna al solo pronunciare certe parole, evocando un profumo o l’orizzonte su cui si spalancava la finestra dell’infanzia.

Così Istanbul, che una vecchia cartolina in bianco e nero raffigura – malinconicamente a metà strada tra tristezza e nostalgia – come città dell’hüzün (una sorta di saudade identitaria ben spiegata altrove da Pamuk), è in realtà una città a colori, e non solo blu, come io stessa credevo assecondando i miei ricordi. Istanbul, rossa come certi suoi tramonti, come certi preziosi tessuti o i vecchi tram, come i carrettini dei venditori di simit o le lenticchie di una minestra che oggi non sa più come ai tempi della scuola, come la rabbia, le proteste, l’abito della rivolta, il sangue, come i rossetti e lo smalto di una madre amatissima che scivola via dalla vita.

La madre è figura centrale di tutto il vagabondare esistenziale raccontato nel libro, descritta al meglio in una vecchia foto che corrisponde all’immagine di copertina. Bellissima, elegante, e malinconica, che «a più di ottant’anni non smette di pensare all’amore» e, come se non bastasse, in ogni pagina l’amore la fa da padrone, l’amore che ci sceglie, imprevedibilmente e in modo definitivo. L’amore, ogni amore, compresi quelli sospesi nel territorio del possibile, «di quello che poteva essere e non è stato». Quando il cerchio si chiude e le due storie narrate si incontrano, è ormai tempo di partire (o tornare) alla volta di sé e di un altrove dove spesso già siamo.

Grazie, caro Ozpetek: davvero il passato – come ha scritto qualcuno che in questo momento mi sfugge – non è mai dove pensi di averlo lasciato.


Ferzan Ozpetek
Rosso Istanbul
Mondadori, Milano 2013

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Questa voce è stata pubblicata il 29 novembre 2013 da in Ferzan Ozpetek, Melania Mazzucco, Orhan Pamuk con tag , .

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